Saturday, December 11, 2010

L'instabilità necessaria

Una bella serata, strana sotto certi versi. Iniziamo dal setting: siamo al Cinema Palestrina, in una traversa di Corso Buenos Aires. La gente si è affannata fino a poco prima con pacchi, pacchetti, boutiques, acquisti natalizi. Mi ci aggiravo anch'io con un'amica (di solito prediligo le vie laterali, come via Tadino dove c'è una bella libreria gestita da una persona che di jazz ne capisce più di me e che ne ha anche scritto più di me) e cercavo di lasciarmene scivolare addosso l'affanno, la tentazione di esistere, come scriveva Emil Cioran.

Comunque Milano non è una città facile per chi ama la cultura e non la considera né un'utopia né un'orpello delle istituzioni, ma a non lasciarsi scoraggiare di soddisfazioni ne dà. Come il piccolo live, a fine proieizoni, con Tiziana Ghiglioni, Giovanni Maier, Emanuele Parrini, Tiziano Tononi, Daniele Cavallanti che compiono un piccolo miracolo, fatto di suoni caldissimi (chi ricorda i dischi Black Saint prodotti da Giovanni Bonandrini?). Il film di Gianpaolo Gelati e Marco Bergamaschi parte con Livio Minafra che racconta l'origine del collettivo venti anni fa (un sogno, un'idea, come tutte le cose migliori di questo mondo). I momenti più emozionanti sono senz'altro quelli che riprendono l'Orchestra a Istanbul e i ricordi di Emanuele Parrini, l'ultimo e il più giovane dei musicisti, che ricorda, sul pullman durante un viaggio con gli altri membri dell'orchestra, il momento della propria 'iniziazione'. Ci sono voluti sette anni per realizzare questo film, degna celebrazione di una visione che è stata apprezzata da gente come Cecil Taylor ("the Instabile can play") e Ornette Coleman ("they play molto molto bella"). Le proiezioni proseguono, ogni martedì, per tutto il mese di dicembre e le prime due settimane di gennaio.

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Wednesday, December 8, 2010

Wadada Leo Smith "Spiritual Dimensions" (Cuneiform, 2009)

Allora, partiamo dal principio, ovvero dal secondo disco di questo set, registrato alla FireHouse di New Haven nella primavera del 2009. Un omaggio al Miles Davis elettrico come nemmeno i vari progetti del ciclo Yo!Miles. Ben quattro i chitarristi in formazione (Nels Cline, Michael Gregory, Brandon Ross, Lamar Smith), due bassi, uno elettrico (Skuli Sverisson) e uno acustico (John Lindberg), oltre al violoncello di Okkyung Lee in formazione, Pheeroan AkLaf alla batteria. Eppure il suono di queste composizioni è una quintessenza di quello che infiammò il mondo (o meglio, i mondi) della musica più di trentacinque anni fa. Questione di stile, di sensibilità, la lucidità della visione. Timbri caldi ma taglienti come lame di rasoio, un’eleganza e una fluidità che tradiscono una precisione chirurgica sul corpo musicale che solo i grandi mistici, quelli meditativi, posseggono e una attitudine zen nell’utilizzare una quantità di musicisti che si potrebbe pensare devoti al massimalismo per esprimere, invece, solo l’essenziale. Insomma, niente tracce di muscoli: è lo spirito che si risolleva dalla schiavitù per inneggiare ad Angela Davis (Tricky senza cut and paste e senza paranoia ma con la tensione post-millennio che non ha saputo incarnare), per scomporre il dub mutante del primo post punk britannico e restituirlo sotto forma di reggaefunk scheletrico alle proprie radici decostruite. Musica che potrà sembrar noiosa o già sentita solo a chi non sa. Così anche Organic, con Nels Cline che compie definitivamente la sua trasmigrazione dai giorni dell’acquisizione del suo armamentario post No Wave e che trasmigra la sua anima sperimentale nei territori del funk dopo aver sperimentato le gioie del dialogo con gente come Elliott Sharp. Il pedale di basso su cui si muove tutta Joy: Spiritual Fire: Joy, che è forse la risposta alla davisiana Ife pubblicata in Big Fun del 1971 e a In A Silent Way insieme.

Il primo set invece, acustico, registrato dal vivo al Vision Festival del 2008, in formazione Pheeroan AkLaf e Don Moye alla batteria (ricordate i tentativi di Ornette ma soprattutto le geometrie dei settetti di Henry Threadgill?), Vijay Iyer (uno dei più bei regali all’Occidente dalla terra del Gange, fluido, lirico e maestoso allo stesso tempo) al pianoforte, John Lindberg al basso. Wadada alterna sordina e pedali in South Central L.A. Culture (il cuore del doppio album, dato che viene ripresa anche nella parte elettrica in una versione più quadrata), ci regala quelle impennate liriche che già appartenevano al suo registro nei giorni sperimentali delle varie release indipendenti con Anthony Braxton e che i dischi ECM ci avevano fatto scoprire in tutta la sua liricità cristallina ma soprattutto, a partire dall’iniziale Al Shadhili’s Litany of the Sea: Sunrise, ci regala atmosfere degne del Don Cherry innamorato dell’oriente dei due Mu cotitolati al compianto Ed Blackwell, crea e rilascia textures, monologhi e dialoghi strumentali fatti di tensioni comunicative. Pacifica, con Iyer al piano e al sintetizzatore contemporaneamente, come certe composizioni di Roscoe Mitchell è flusso sonoro carico di detriti, joyciano nel suo stratificarsi orizzontale in attesa perpetua di un decollo sempre trattenuto. Tensione, ancora, ricami di contrappunto, fini, call and response che del blues mantengono la sostanza per poi lasciar posto ad apparizioni spettrali sottolineate da un lirismo metafisico, a tratti debussiano; Umar at the Dome of the Rock, parts 1 & 2, strumenti che tessono la trama dello spazio e se ne fa compenetrare. Atmosfera quasi religiosa, gli strumenti che parlano all’anima, quella che il mondo vorrebbe levarci nel vociare della socialità, e che sul palco invece viene restituita all’espressione delle individualità, ai loro timbri, alle loro interazioni. Crossing Sirat, timbrica allo stato puro, ritmicità del colore, flusso sonoro, il discorso musicale a partire dalla texture, dall’interlacciarsi degli strumenti e delle loro schegge sonore. E poi, appunto, South Central L.A. Kulture, dub mutante con Wadada che alterna wah wah e sordina, acustico ed elettrico, e si capisce che sì, la scena londinese del Wild Bunch aveva capito tutto.

Il doppio album aveva trovato spazio negli scaffali l’autunno dello scorso anno, pubblicato da una Cuneiform che ci ha regalato, tra ristampe delle macchine molli e delle fratellanze sudafricane, tra nostalgie progressive fuori tempo ma degne di rispetto proprio perché fuori dalle mode e motivate solo da amore e rispetto, la sua zampata di classe. Non troverete nulla che non sia già stato detto, forse, in questi metacrilati, se non, per l’ennesima volta, il modo migliore per dire l’essenziale, e al meglio, nel momento stesso in cui lo si crea.

Elenco dei brani:
CD 1:
01. Al-Shadhili's Litany of the Sea: Sunrise; 02. Pacifica; 03. Umar at the Dome of the Rock, parts 1 & 2; 04. Crossing Sirat; 05. South Central L.A. Kulture
CD 2:
01. South Central L.A. Kulture; 02. Angela Davis; 03. Organic; 04. Joy; 05. Spiritual Fire: Joy.

Musicisti:
Wadada Leo Smith, tromba; Vijay Iyer, pianoforte, sintetizzatore; John Lindberg, contrabbasso; Pheeroan AkLaff, batteria; Don Moye, batteria; Nels Cline, Michael Gregory, Brandon Ross, Lamar Smith (#1 e #4), chitarra; Okkyung Lee, violoncello; Skuli Sverrisson, basso elettrico.